Siamo al cospetto di una importante decisione della Corte costituzionale, che, nel respingere la questione di legittimità relativa al regime preclusivo di cui all’art. 59 co. 1° lett d) e dopo aver escluso qualsiasi vizio nel procedimento di formazione del d.lgsl. 150/2022 (con riguardo, in particolare, al criterio di delega enunciato dall’art. 1 co. 17 l. 134/2021), svolge interessanti considerazioni con riguardo a forme di <<automatismo sanzionatorio puro>> (v., in tal senso, Bianchi; Le pene sostitutive, Torino, 2024, p.164).
Sotto il primo profilo, va rilevato come i rilievi avanzati dal giudice remittente si appuntassero essenzialmente sulla (reputata) irragionevolezza della scelta legislativa di <<ancorare una presunzione legale di inidoneità della pena sostitutiva a perseguire i fini di legge al mero titolo di reato addebitato all’imputato, a prescindere da una valutazione della peculiarità del caso concreto>>. Il legislatore delegato avrebbe finito, fra l’altro, con l’omologare indiscriminatamente tutte le fattispecie criminose richiamate dall’art. 4 bis o.p., benché in esso si preveda <<un regime penitenziario molto diverso a seconda delle diverse categorie di reati>>. A fronte di queste argomentazioni, la Corte, dato atto che <<diversi sono i requisiti che l’ordinamento penitenziario pone oggi per il superamento dell’ostatività rispetto a benefici e misure alternative>>, osserva come <<il dato comune a tutte queste ipotesi è rappresentato dalla necessità di specifici accertamenti, compiuti di regola durante l’esecuzione della pena, che riguardano la persistente pericolosità del condannato, presunta in via generale dall’ordinamento in relazione allo specifico titolo di reato posto a base della sentenza di condanna>> (par. 8.2 del considerato in diritto). E, a parere dei giudici della Consulta, <<è proprio tale caratteristica comune a costituire la ratio dell’esclusione degli imputati per i reati di cui all’art. 4-bis o.p. dal novero dei possibili beneficiari delle pene sostitutive>>. Infatti, rilevato che tale presunzione di pericolosità <<non è, in questa sede, in discussione>> e comunque incidentalmente osservando che essa <<coinvolge reati di significativa gravità e produttivi di particolare allarme sociale>>, si deve concludere che <<il superamento della presunzione di pericolosità degli autori di questi reati […….] esigerebbe accertamenti che il giudice della cognizione non è ordinariamente in grado di compiere, e che anzi il legislatore dell’ordinamento penitenziario riserva normalmente a una fase di osservazione intramuraria del condannato>>. Da questo punto di vista, se ne deve dedurre, dunque, che <<la scelta del legislatore non appare, in via generale, manifestamente irragionevole o arbitraria, salva la verifica di una sua eventuale irragionevolezza o sproporzionalità rispetto a singole ipotesi criminose, tra quelle richiamate negli ormai foltissimi elenchi di cui ai vari commi dell’art. 4-bis o.p.>>.
Saremmo dinnanzi, insomma, a una scelta di coerenza sistematica. Un aspetto della nuova disciplina delle pene sostitutive che, del resto, era stato subito evidenziato da autorevole dottrina, essendosi rilevato come <<l’innalzamento a quattro anni del limite massimo di pena detentiva surrogabile fa(ccia) sì che la questione della sostituibilità si ponga anche rispetto agli illeciti inclusi nel catalogo dei reati ostativi all’accesso alle misure alternative, di cui all’art. 4-bis o.p.>> Proprio, <<in funzione di “coordinamento” con predette preclusioni – e per evitare il crearsi di “asimmetrie” disciplinari foriere di esiti irragionevoli od elusivi della disciplina penitenziaria- si prevede, dunque, che, nel caso di imputato di uno dei reati indicati nell’art. 4-bis o.p. la sostituibilità non possa avere luogo>> (così A. Gargani, Le “nuove” pene sostitutive, in DPP, 2023, 1, p.27).
Rimane a sensazione, in ogni caso, che questo regime preclusivo – così rigoroso e indifferenziato – finisca con il permeare indebitamente la nuova disciplina di quelle logiche presuntive, se non addirittura neo-retribuzionistiche, che parrebbero essere ormai estranee alla (rinnovata) regolamentazione del meccanismo ostativo ancora “allocato” all’interno della legge penitenziaria (v. D. Bianchi, Il potere discrezionale del giudice e le preclusioni soggettive alla sostituzione della pena, in AA.VV., Riforma Cartabia – La modifiche al sistema penale, vol. III, Le modifiche al sistema sanzionatorio penale, a cura di Bartoli – gatta – Manet, Torino, 2024, p. 56).
Infine, la Corte, sollecitata dal giudice remittente, prende in considerazione la questione anche sotto il profilo della finalità rieducativa della pena. Nell’argomentare le ragioni a sostegno della decisione di rigetto, non pare volersi discostare, peraltro, da un orientamento ormai abbondantemente consolidato, come attestato dai numerosi precedenti che sono richiamati nel punto 9.1 del considerato in diritto. I giudici della Consulta ricordano, infatti, come <<la giurisprudenza di questa Corte non si è mai spinta ad affermare che la rieducazione debba essere considerata, per vincolo costituzionale, come l’unica finalità legittima della pena. Il legislatore ben può, dunque, assegnare anche altre finalità alla pena – come il contenimento della pericolosità sociale del condannato e la deterrenza nei confronti della generalità dei consociati –, a condizione appunto di non sacrificare, in nome di queste pur legittime finalità, la sola funzione della pena espressamente indicata quale costituzionalmente necessaria, la rieducazione del reo>>. Diversamente ragionando, avverte la Corte, <<al giudice della cognizione dovrebbe essere sempre consentito – per vincolo costituzionale – sostituire qualsiasi pena detentiva, ancorché inflitta per reati gravissimi, con una pena meno afflittiva, ogniqualvolta il condannato non risulti (più) socialmente pericoloso al momento della condanna: conseguenza, questa, che la giurisprudenza di questa Corte non ha mai tratto, sinora, né dall’art. 27 co. 3° Cost., né dall’art. 13 Cost.>>. Al contrario, <<il diritto penale oggi vigente stabilisce – evidentemente in ottica anche generalpreventiva – che chi è stato condannato per un grave reato deve in ogni caso iniziare a scontare la propria pena in carcere, senza che sia richiesto al giudice di accertarne, caso per caso, la persistente pericolosità sociale. In quella sede dovrà dunque essere avviato il percorso del suo graduale reinserimento nella società, nel quadro di un trattamento orientato a quei principi di progressività e flessibilità>>. Semmai, conclude la Corte, bisogna riconoscere come <<l’ampliamento del novero delle pene sostitutive e il deciso allargamento delle possibilità di accedervi realizzato con la riforma del 2022 costituisca un passo significativo nella direzione dell’inveramento, da parte dello stesso legislatore, dell’insieme dei principi costituzionali in materia di pena>>. Si tratta di materia su cui, peraltro, è necessario predicare prudenza, i Giudici costituzionali avvertono, infatti, come questi <<principi, che da sempre sono stati intesi non solo come canoni di legittimità costituzionale delle scelte legislative, ma anche – e ancor prima – come criteri orientativi della politica criminale>>, paiono <<destinati a essere attuati mediante la dialettica democratica e la costruzione graduale di un consenso nella società, senza il quale essi finirebbero per restare lettera morta>> (punto 9.3).